“La pastora” di Giorgio Bàrberi Squarotti




Lettura di Piero Simoni della poesia “La pastora” di Giorgio Bàrberi Squarotti




La pastora

- Una pastora giovane: nel prato
Scosceso, al centro, con la verga in pugno,
e tutti, in giro, gli animali.- Pecore,
capre, giovenche candide e pezzate?
- No: porci e scrofe, ed è ella succinta
per non lordarsi in tanto brago e puzza,
ed è pure costretta a intervenire
spesso fra strilli e grugniti a dividere,
a sospingere via i più riottosi,
a costringerli infine a incolonnarsi
verso la conca d’acqua fonda, buia,
per poi entrare mondi nello stabbio.
- Era la povertà a farle fare
quell’infame lavoro? Carestia
nel suo paese d’Oriente o guerre
con i guerrieri che, negli armistizi,
con lacci, funi e gabbie vanno in scuole
o per boschi alla caccia di ragazze
vergini per portarle nei teatri
a farle danzare nude davanti
ai turisti e, poi, quando sono esauste,
frustarle ancora per domarle e in templi
e bar infine consumarle, e questa
fosse qui la meno aspra di speranza?
- E se l’unica fosse che volesse
tentare ancora la trasformazione
opposta a quella che la dea o l’angelo
che fu di luce fece, e prima o poi
le bestie immonde uscissero dall’acqua
lentamente assumendo volti,
voci pur rauche e errate, mani tese?
Stava seduta sulla panca, dopo
aver chiuso la porta, stanca. Aveva
accanto pane, un pezzo di formaggio,
un bicchiere di vino. Contemplava
il tramonto scarlatto di fra mezzo
gli elci, le querce fruttifere, i pini.
Domani si sveglierà presto, e l’alba
pazientemente interrogherà, mentre
si verserà la grande tazza colma
di latte.





Fra le categorie degli animali da campo, quelli più umili, come i porci e le scrofe, sono quelle cui la giovane pastora deve accudire, con la sua verga per ordinare, ricomporre il gruppo, tra strilli e grugniti, a dividerli per condurli alla conca d’acqua buia, ed entrare puliti poi nello stabbio. Con la sua veste succinta per non lordarsi in tanto sporco e puzza. Forse era la povertà a fargli fare quel mestiere. Mancanza grave nel suo paese d’Oriente o guerre con guerrieri che rastrellano ragazze vergini per farle danzare nude davanti ai turisti nei teatri, poi sfruttarle ancora, fino a domarle, consumarle. La condizione della pastora la meno aspra delle speranze allora?
E se volesse tentare la sorte opposta che fu della dea o l’angelo di luce, e le bestie assumessero le sembianze di uomini, con voci rauche, mani tese uscendo dall’acqua? Dopo aver chiuso la porta, stava seduta su una panca, con accanto pane e formaggio, un bicchiere di vino. Guardava con piacere il tramonto fra gli alberi. Il giorno dopo si sarebbe dovuta svegliare presto per ricominciare una giornata uguale, come tutte le altre, nella solitudine dei campi, nella compagnia dei soli animali e interrogherà pazientemente l’alba davanti alla tazza colma di latte.

Un tuffo nel passato, nel mio passato, ognuno vive il suo tempo, nel bene e nel male coglie tutto ciò che vi è dentro, io sono partito dai campi, nella campagna livornese, piccolo, ero mescolato alla vita dei contadini, con il contatto ravvicinato degli animali, bevevo al mattino il latte appena munto, del calore dell’animale, dal sapore buonissimo, inconfondibile, le uova, anch’esse con un foro bevute appena depositate; stavo con i bovi, a dar loro da mangiare, senza alcun timore delle grandi teste nella mangiatoia, spostandole invece, per meglio distribuire il pasto. Odori di sterco, di orina, di paglia, di fieno, di verde delle piante, al combusto del focolare, tutti percepiti, scoperti, unici per lungo tempo; al ritmo cadenzato della natura, al silenzio delle ore, nella coscienza – incoscienza dell’infanzia. L’odore del fico, del pane appena fatto al forno, una volta ogni venti giorni, la presenza calda di mia madre che allora c’era, ogni istante per me. Il mondo altro non sapevo dov’era, forse ancora da venire, in città poi sono stato introdotto, per mutamenti familiari, per la scuola cui si doveva andare. Iniziato il tempo dell’agglomerato urbano, con poche automobili e ancora molte carrozze, cavalli in vari angoli della città e stalle. Via via tutto si è modificato, intento come ero a crescere, a guardarmi intorno nella nuova realtà, neanche vi ho badato, tutto è diventato in fretta diverso, con una gara a togliere il vecchio, consolidato, di legno, di vetro, meccanico, per lasciare il posto al presente, plastico, funzionale, intercambiabile, rinnovabile. Così sono cambiati gli edifici, più alti e incasellanti ogni nucleo familiare, ogni individuo, mutate le strade che con l’asfalto hanno lasciato il posto alla percorrenza delle auto, più numerose, le abitudini della gente modificate, coinvolgendo sempre un numero maggiore in spese, orientamenti e comportamenti uguali. Cambiato il modo di pensare, di vivere, la campagna è rimasta esclusa dal contesto, le nuove esigenze di massa fanno si che oggi venga intesa con una coltivazione a livello industriale, opera di grandi imprese che hanno soppiantato il vecchio nucleo contadino. Il mercato esige regole nuove, bisogna alzare i consumi, pilotarli, vige la concorrenza che ci espone a rischi vicini e lontani per il sopraggiungere,  l’affermarsi di nuove realtà economiche, affiancatesi o in alternativa a ciò che già nel nostro mondo concatenato sussisteva.
Io nel contempo sono cresciuto, quasi invecchiato, mi sono piegato al volere della sopravvivenza accettando le regole, lavorando nell’industria una vita, come altri del resto in settori più disparati, ho dovuto consumare i miei anni a rincorrere beni più o meno fittizi, più o meno necessari; ho messo su famiglia e, della campagna, a mia figlia ne ho parlato; allora era un altro mondo, forse scomparso per naturale consunzione, era la mia infanzia, forse scomparsa per naturale scorrimento del tempo, facendomi essere l’uomo che dovevo essere; lontano da quel mondo contadino, quegli odori allora scoperti, quei giorni che dentro di me davano il segno dell’esistenza, subito amata, senza calcolo, per spontanea adesione alla natura. Nell’incoscienza di bimbo io coglieva i frutti dei giorni senza sapere, godendo intimamente della mia presenza in ciò che era l’unico, veritiero, terrestre paradiso. Non ho più avuto la mia infanzia, quel mondo, tutto è cambiato, impossibilitato il ritorno, il congiungimento, spariti i contadini di allora, sparita mia madre dal regno dei vivi, io oggi sono quello che non era, altro per ciò che sono stato modellato: un signore sconosciuto che non mi appartiene. Forse è la normale legge dell’esistenza,  lo scorrere del tempo che modifica i componenti, li logora fino a distruggerli; forse è solo cambiato il mondo, come era inevitabile, ma, della  mia generazione molti hanno perso l’orientamento, molti si sono smarriti nei vicoli del reticolato moderno cittadino: l’evoluzione dei tempi, l’avvento di internet e di chissà quale altra diavoleria che modificherà nuovamente il costume, il pensiero, la vita.
Nella lettura de “La pastora”, in questa descrizione dettagliata dei suoi momenti, dei suoi sentimenti, ho ritrovato, quasi per incanto, come  magia dell’arte, il profumo dei campi, l’odore degli animali, l’intima gioia e riconoscimento di un mondo, di una età che credevo per sempre smarriti: ho ritrovato per un istante, e per ogni lettura che vorrò, il fiato caldo della natura con il principio della mia esistenza.


30 gennaio 2011