Vedo un uccello fermo sulla grondaia di Eugenio Montale
Vedo un uccello fermo sulla grondaia di Eugenio Montale -Satura II - (1968) - Arnoldo Mondadori Editore 1971
Lettura pubblicata sulla rivista POETI E POESIA n° 19 aprile 2010
Lettura pubblicata sulla rivista POETI E POESIA n° 19 aprile 2010
Poeti e Poesia (Mappe e Percorsi ISSN 2035-9535)
N° 19 aprile 2010
Pagine - Via Gualtiero Serafino, 8 - 00136 Roma
poesia@pagine.net
www.pagine.net
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NOTA DI LETTURA SU UNA POESIA DI EUGENIO MONTALE CHE TRATTA DELLA " FELICITA' "
Eugenio Montale nasce a Genova il 12 ottobre 1896. Nel 1975 gli viene conferito il premio Nobel per la letteratura. Muore a Milano il 12 settembre 1981.
"L'argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata; non questo o quell'avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza, e volontà, di non scambiare l'essenziale con il transitorio." (Intervista radiofonica del 1951).
Eugenio Montale - Satura II - (1968) - Arnoldo Mondadori Editore 1971
Vedo un uccello fermo sulla grondaia,
può sembrare un piccione ma è più snello
e ha un po' di ciuffo o forse è il vento,
chi può saperlo, i vetri sono chiusi.
Se lo vedi anche tu, quando ti svegliano
i fuoribordo questo è tutto quanto
ci è dato sapere sulla felicità.
Ha un prezzo troppo alto, non fa per noi e chi l'ha
non sa che farsene.
può sembrare un piccione ma è più snello
e ha un po' di ciuffo o forse è il vento,
chi può saperlo, i vetri sono chiusi.
Se lo vedi anche tu, quando ti svegliano
i fuoribordo questo è tutto quanto
ci è dato sapere sulla felicità.
Ha un prezzo troppo alto, non fa per noi e chi l'ha
non sa che farsene.
Una immagine figurata di elementi della natura: "..un uccello fermo sulla grondaia", "..il vento". Sono simboli di una felicità quasi irraggiungibile, dove gli stessi vetri costituiscono barriera alla corretta visione, qualcosa che impedisce, e chi, questa felicità ce l'ha, non ne sa godere. Noi stessi, nella nostra giovinezza, quando dovremmo essere - naturalmente - felici, cerchiamo sempre altro, qualcosa lontano come se - tutto - fosse al di fuori del presente che ci circonda. "Se lo vedi anche tu...", quasi a chiedere condivisione, conforto della propria percezione che è minimale, ma connotato di intima gioia, qualcosa di estremamente labile, come la presenza di un uccello che subito può spiccare il volo. La natura che ci circonda, il nostro pianeta nell'universo di stelle, sono elementi di felicità, particolarmente nell'età matura quando la giovinezza è sfumata e il nostro animo di altre luci si colora con una acquisizione di un momento, sempre fugace...
Quando scrive questa poesia l'autore è settantenne, nel pieno della maturità di uomo e di poeta; le sue parole riflettono esattamente quello che è il suo pensiero, la sua "filosofia": la felicità ha il connotato di una bellezza effimera, fragile, volatile che non ci è dato di cogliere. La felicità è quello che si intravede, ma non si può prendere, è qualcosa che si intuisce, ma non si può percepire in modo concreto, è qualcosa che sembra, che non ha concretezza, che pure esiste. Forse non si raggiunge la disperazione in Montale perché c'è questo spiraglio, questa visione di sogno che per un istante, solo per un istante, illumina il giorno. Io nel 1968 ero quasi alla fine degli studi nautici, ed avevo vent'anni, era la stagione del '68 che coinvolse i giovani di allora in una ondata di ribellione collettiva. Poco sapevo del '68, "recluso" come ero nel collegio che si protraeva da anni, la cosa che più mi colpiva e mi riempiva la mente era l'amore, da poco conosciuto, quella era per me una esplosione di felicità. Iniziavo comunque a prendere coscienza, con gli anni in modo sempre più netto, di una mia distonia con le vicende quotidiane sociali: iniziavo a meglio interpretare una voce interiore che pareva farmi vivere, nella quotidianità, un'altra vita. All'inizio trovandomi impreparato e all'esterno disarmato, poi, con il tempo, ho tenuto a tutelare, a mantenere riservato quest'altro "sentire", trovandomi doppio e spiazzato nei contesti di ogni periodo: praticamente vivevo una vita parallela. Solo in età pienamente matura, quando ho potuto smettere il lavoro industriale, le due vite sono andate quasi a combaciarsi. Ora sono quello che ero e non davo a vedere, ora vorrei essere quello che sono, la vita, chiamala "felicità", come allora però pare prendersi gioco di me e, pur modificando la sua veste, per scherzo mi sfugge. Ora che ho quasi l'età dell'autore, quando scrisse la poesia, con un decennio meno a dir la verità, non voglio appesantirmi, in un periodo decisamente diverso dove l'informatica, la comunicazione in genere ed altre discipline tecniche hanno modificato i comportamenti di massa e la nostra vita individuale, in merito alla "felicità" credo non ci sia nulla da eccepire a Montale, rimane intatto e valido il suo pensiero, ha trattato in modo giusto e con sufficiente distacco un tema universale che prescinde dal contingente nostro modo di vivere, noi oggi, così abili nel fabbricare beni e paradisi artificiali.
Quando scrive questa poesia l'autore è settantenne, nel pieno della maturità di uomo e di poeta; le sue parole riflettono esattamente quello che è il suo pensiero, la sua "filosofia": la felicità ha il connotato di una bellezza effimera, fragile, volatile che non ci è dato di cogliere. La felicità è quello che si intravede, ma non si può prendere, è qualcosa che si intuisce, ma non si può percepire in modo concreto, è qualcosa che sembra, che non ha concretezza, che pure esiste. Forse non si raggiunge la disperazione in Montale perché c'è questo spiraglio, questa visione di sogno che per un istante, solo per un istante, illumina il giorno. Io nel 1968 ero quasi alla fine degli studi nautici, ed avevo vent'anni, era la stagione del '68 che coinvolse i giovani di allora in una ondata di ribellione collettiva. Poco sapevo del '68, "recluso" come ero nel collegio che si protraeva da anni, la cosa che più mi colpiva e mi riempiva la mente era l'amore, da poco conosciuto, quella era per me una esplosione di felicità. Iniziavo comunque a prendere coscienza, con gli anni in modo sempre più netto, di una mia distonia con le vicende quotidiane sociali: iniziavo a meglio interpretare una voce interiore che pareva farmi vivere, nella quotidianità, un'altra vita. All'inizio trovandomi impreparato e all'esterno disarmato, poi, con il tempo, ho tenuto a tutelare, a mantenere riservato quest'altro "sentire", trovandomi doppio e spiazzato nei contesti di ogni periodo: praticamente vivevo una vita parallela. Solo in età pienamente matura, quando ho potuto smettere il lavoro industriale, le due vite sono andate quasi a combaciarsi. Ora sono quello che ero e non davo a vedere, ora vorrei essere quello che sono, la vita, chiamala "felicità", come allora però pare prendersi gioco di me e, pur modificando la sua veste, per scherzo mi sfugge. Ora che ho quasi l'età dell'autore, quando scrisse la poesia, con un decennio meno a dir la verità, non voglio appesantirmi, in un periodo decisamente diverso dove l'informatica, la comunicazione in genere ed altre discipline tecniche hanno modificato i comportamenti di massa e la nostra vita individuale, in merito alla "felicità" credo non ci sia nulla da eccepire a Montale, rimane intatto e valido il suo pensiero, ha trattato in modo giusto e con sufficiente distacco un tema universale che prescinde dal contingente nostro modo di vivere, noi oggi, così abili nel fabbricare beni e paradisi artificiali.
3 gennaio 2010